La goccia che fa traboccare il vaso

28.08.2021
Messico
di Luisa Deponti
Attualità, Migrazione

L'emigrazione dai paesi dell’America Centrale verso il Messico e soprattutto gli Stati Uniti ha tante cause diverse che si sommano e concorrono a un esodo forzato di singole persone, adulti e minori non accompagnati, e di intere famiglie. I media ci mostrano masse di gente, carovane in movimento, ma ciascuno ha la sua storia e il suo cammino. Vi raccontiamo la storia di Jorge e María Fernanda, due giovani coraggiosi, che non hanno voluto accettare ingiustizie e compromessi.

Negli incontri della vita quotidiana a Città del Messico abbiamo conosciuto in situazioni diverse Jorge dell’Honduras e María Fernanda del Nicaragua. Nelle loro giovani vite si è fatta largo gradualmente la necessità di partire dai loro paesi per poter vivere, per ritrovare la libertà dall’oppressione e dalla mancanza di giustizia e di prospettive.
Jorge lo abbiamo conosciuto a Casa Tochan, una casa per migranti di Città del Messico. Da richiedente asilo accolto, il giovane honduregno è diventato collaboratore volontario nei mesi più duri della pandemia.
“I motivi della mia partenza dall’Honduras iniziano con gli eventi del 2009, quando ero ancora uno studente universitario. Mi riferisco al colpo di Stato militare ai danni del presidente Manuel Zelaya, una crisi politica che ha segnato uno spartiacque nella mia vita e in quella di tutto il paese. Prima di quel fatto si stava maturando una consultazione popolare per cambiare il bipartitismo in cui l’Honduras era rimasto bloccato per più di un secolo.
Quando è arrivato il giorno, si sentiva nell’aria che sarebbe successo qualcosa. All’alba mi sono svegliato con la notizia che era in atto un colpo di stato. Ho avvertito un brivido nel corpo perché non sapevo come reagire. Non avevo mai avuto questa esperienza, ma ne avevo sentito parlare dalle persone che l’avevano vissuta in passato e ne avevo conosciuto degli esempi sui libri di storia.
Sono andato molto presto nella piazza della mia città. Là c’erano ancora le persone che avrebbero dovuto realizzare la consultazione popolare. All’improvviso ho visto arrivare delle camionette, da cui sono scesi i militari i quali hanno occupato tutta la piazza. In quel momento ho definito la mia posizione come cittadino. Ero molto giovane e questo atteggiamento ha portato con sé molte conseguenze, poiché da quel giorno ho iniziato a partecipare a tutte le iniziative di protesta contro il colpo di stato, mettendomi dalla parte dei perseguitati, mentre aumentavano i morti, alcuni uccisi nelle manifestazioni e altri vittime di una serie di omicidi selettivi. Nonostante questo pericolo, per la mia giovane età non ho messo limiti, ma mi sono lanciato perché ero cosciente che era necessario generare un cambiamento nel paese. Mi dicevo che non potevo restare indifferente di fronte a tutto quello che vedevo e il minimo che potevo fare era partecipare e non rimanere in silenzio. Ovviamente, è stato difficile. Con il passare del tempo ho cominciato a vedere le ripercussioni che tutto ciò aveva sulla mia vita”.
Negli otto anni successivi, Jorge continua il suo impegno politico alternando momenti di maggiore tranquillità a fasi di grande tensione. Impara ad avere un comportamento più cauto, per non dare alla polizia motivi per metterlo in prigione: “Sapevo che tutto era contro di me: l’apparato giuridico e militare. Non potevo commettere errori. Ascoltavo le notizie di persone assassinate, compagni che s’impegnavano a livello locale, studenti che avevano partecipato a una manifestazione ed erano stati sequestrati e poi uccisi. Però in quel momento non volevo abbandonare la lotta. Per me fuggire dal paese sarebbe stato come lasciare incompiuto quello che avevo cominciato, nonostante vedessi che la situazione si stava deteriorando”.
Nel 2014 emerge grazie ad alcuni giornalisti indi­pendenti lo scandalo del­l’I­stituto Honduregno di Si­­­­curezza Sociale, cioè l’en­­te che gestisce i contributi dei lavoratori per il sistema sanitario naziona­le. Viene reso pubblico, in­fatti, il saccheggio dei soldi dei contribuenti da parte dell’attuale regime del Presidente Juan Orlando Hernández Alvarado, eletto per la prima volta nel 2013. Per questo motivo, molti honduregni sono rimasti privi di assistenza sanitaria e vi sono state molte vittime per mancanza di medicine e terapie.
“Questo ha causato in me e in tanti altri una grande indignazione. È nato il Movimento delle torce, cioè delle manifestazioni che si tenevano in varie parti del paese tutti i venerdì sera, in cui le persone portavano con sé una torcia accesa, simbolo della salute, del desiderio di luce in un paese pieno di oscurità.

Tutto questo impegno aveva un prezzo. A molti è costato la vita. Io ho dovuto vivere per anni come un esiliato nel mio stesso paese. Alla fine ho lasciato l’Honduras per l’ultima goccia che ha fatto traboccare il vaso. Nel 2017, durante la fase elettorale, nasce un’alleanza politica a cui ho dato il mio appoggio come artista, insieme a numerosi intellettuali, pittori e drammaturghi. Il Presidente uscente, però, riesce a farsi rieleggere con una frode elettorale. Il sistema informatico di conteggio dei voti, infatti, crolla all’improvviso e dopo alcuni giorni viene ripristinato, ma i dati risultano cambiati e danno la vittoria a Hernández Alvarado, che rimane al potere per altri quattro anni. Nel 2016 avevano già assassinato l’ambientalista Berta Cáceres, che conoscevo. Che cosa potevo sperare ancora? Nel mio caso mi stavano uccidendo lentamente e praticamente, perché ero emarginato dal mondo del lavoro e avevo molti problemi economici. Nel 2019 ricevo la notizia della partenza della carovana migrante da San Pedro Sula e decido di unirmi a loro. Non ho detto niente a nessuno. Ho avvisato mio padre il giorno stesso della partenza e lui non ha potuto fare nient’altro che augurarmi ogni bene e darmi un po’ di soldi. Ero completamente solo, pur essendo in una carovana. Il mio obbiettivo non erano gli Stati Uniti, co­me per la maggioranza. Volevo lasciare una situazione disperata in cui mi trovavo per le mie scelte po­litiche. La mia intenzione era chiedere asilo in Messico anche se non conoscevo nessuno”.
Il percorso avviene per alcuni tratti a piedi e per altri chiedendo un passaggio a vari automezzi. La carovana procede dall’Honduras al Guatemala e giunge alla capitale, dove Jorge prende un autobus per arrivare di notte alla frontiera di Tecún Umán.
“Nell’autobus l’atmosfera era molto tesa perché c’erano molti migranti centro­americani e cubani. La mia decisione era di consegnarmi alle autorità messicane per chiedere asilo politico. In quel periodo, in Messico stava iniziando il suo mandato il Presidente Andrés Manuel López Obrador e la politica migratoria del nuovo Governo non era ancora definita, così ho ricevuto presto un visto temporaneo per ragioni umanitarie. Il primo anno è stato molto difficile. Non passava giorno in cui non pen­sassi all’Honduras, a tut­to ciò che avevo lasciato. Però è arrivato un momento in cui ho cominciato a sentirmi più tranquillo, ad avere pazienza con tutte le pratiche burocratiche. La mia procedura d’asilo è iniziata nell’ottobre del 2019 e si è conclusa nel febbraio di quest’anno a causa della pandemia. Negli ultimi dieci mesi ho vissuto in Casa Tochan. Non pensavo di fermarmi qui tanto tempo. Ma con la pandemia, molti volontari non potevano più venire ad aiutare. Questo lavoro tra gli altri migranti mi ha aperto gli orizzonti facendomi crescere come persona”.

Anche María Fernanda, nicaraguense, ha potuto dedicare alcune ore al volontariato in Casa Tochan. È medico e in questi mesi di pandemia ha lavorato in un ospedale temporaneo COVID installato nel centro congressi Citibanamex, dove ha conosciuto Rosiane, una missionaria.
“Il motivo della mia partenza dal Nicaragua è stato principalmente il contesto politico in cui si trova il paese, perché è una dittatura. Infatti, il presidente Daniel Ortega è in carica da più di sedici anni. Nonostante io lavorassi in istituzioni del governo che offrivano molti privilegi e vantaggi, mi sentivo infelice perché c’erano molte ingiustizie e incongruenze tra ciò che veniva detto e ciò che realmente si faceva, mentre un medico dovrebbe essere coerente in ciò che pensa, dice e fa.
Nel 2018 ci sono state manifestazioni da parte degli studenti universitari di varie facoltà. Protestavano contro una nuova legge che toglieva agli anziani il diritto alla loro pensione. La popolazione vedeva quest’ingiustizia, ma i primi a ribellarsi sono stati i giovani; poi molti cittadini li hanno seguiti nelle proteste. Il governo ha risposto in modo violento, la polizia ha sparato sui manifestanti, ferendoli o uccidendoli, compreso un ragazzo di quattordici anni. Quando il giovane è arrivato ferito all’ospedale, la ministra della salute ha ordinato che non fosse assistito, per questo è morto. Poi hanno dato lo stesso ordine riguardo ad altri manifestanti feriti.
In quel momento mi sono chie­sta: co­me può essere che al per­sonale sa­nitario venga imposto di non aiutare le per­­sone che hanno biso­gno di cure? La nostra fi­na­lità è quella di assistere tutti i malati, indipendentemen­te dal loro orienta­men­to politico. Molta gen­­te è stata lasciata morire per strada e io co­me medico non potevo dire e fare niente. I colleghi af­fer­mavano che la direttrice li aveva minacciati di licenziamento se a­vessero prestato le cure ai ma­­nifestanti. E, di fatto, alcuni medici che non hanno accettato questa imposizione sono stati mandati via. Altri hanno creato un centro clandestino, dove anch’io sono andata una volta per assistere i feriti. Ma mi chiedevo: com’è possibile che ti licenzino perché stai facendo il tuo lavoro di medico? Come posso accettare di nascondermi mentre sto facendo il mio dovere? Dov’è la mia di­gni­tà di essere umano e di professionista? Ma non potevo dire niente per­ché avrebbero potuto uccidermi o fare del male alla mia famiglia. Anche molti poliziotti si sono dimessi, perché il go­ver­no intendeva usare la polizia nazionale per ter­ro­rizzare la popolazione. Vari agenti non hanno vo­luto accettare questo e hanno lasciato le forze dell’ordine, ma anche tra di loro ci sono stati dei morti, altri sono spariti o sono dovuti andare in esilio.
La goccia che ha fatto traboccare il vaso per me è stato quando un gruppo di paramilitari del governo ha dato fuoco ad una casa con dentro dei bambini, che sono morti. Siccome questa abitazione si trovava in un luogo strategico per controllare le manifestazioni, la volevano occupare, ma la famiglia che abitava lì non cedeva e per questo hanno appiccato le fiamme. Di fronte a questa tragedia, mi sono messa a piangere chiedendomi: Dio mio, com’è possibile che abbiano fatto questo? Da quel momento in avanti non ho più potuto accettare il regime al potere. E pensare che la mia famiglia ed io eravamo sempre stati di questa linea politica. Mio padre aveva rivestito degli incarichi di partito nella città natale. Ma di fronte a tali malvagità, non potevo più lavorare nelle istituzioni del governo”.
María Fernanda matura l’idea di emigrare in Messico. Nel 2019 ha la possibilità di specializzarsi proprio a Città del Messico, attraverso uno scambio tra università. Concluso lo studio, decide di tornare in Nicaragua solo per organizzare la sua partenza definitiva. Ma, mentre si trova nel suo paese, si diffonde l’epidemia del coronavirus e le frontiere vengono chiuse. Tutti i voli vengono cancellati.
“Ho continuato a lavorare in due ospedali controllati dal regime, in cui venivano ricoverati membri dell’élite. Ero infelice perché non avevo libertà di espressione, avevo una museruola sulla bocca. Però sentivo che non potevo più rimanere in silenzio. Con l’arrivo della pandemia, hanno cominciato a nascondere i fatti. Dicevano che il coronavirus non c’era, che vi era solo qualche caso di polmonite atipica. Nell’ospedale c’era molta corruzione e anche violenza sessuale da parte delle autorità nei confronti del personale femminile.
Il 15 agosto 2020 mi ricordo che ho pregato Dio perché mi aiutasse a partire per il Messico. Quel giorno ricevo la chiamata di un’amica di una compagnia aerea che mi avvisa che finalmente ci sarà un volo, ma molto costoso. Le chiedo di prenotarlo per me. Non avevo il denaro necessario, per questo ho cominciato a vendere tutto, dall’auto ai mobili della casa. Per me è stata opera di Dio, perché sono riuscita a vendere tantissime cose in poco tempo: con i soldi ho pagato il biglietto e sono partita. In Messico avevo ancora il mio permesso come studentessa e in seguito ho ottenuto un permesso di lavoro.
Quando le autorità e i colleghi degli ospedali dove lavoravo in Nicaragua si sono resi conto che ero andata via, sono cominciate molte chiamate telefoniche. Tra queste, ho anche ricevuto delle minacce rivolte alla mia famiglia. Il primo mese l’ho trascorso nella paura per i miei cari e poi due mesi di insicurezza, perché non avevo un lavoro, ero sola e i risparmi stavano finendo. Finalmente ho trovato un impiego in un’istituzione privata e, in gennaio, nell’ospedale temporaneo COVID. Lì il salario era buono e ho cominciato a sentirmi più sicura e a risparmiare”.
Per Jorge e María Fernanda questo anno di pandemia ha rappresentato un tempo pieno di problemi, ma anche di nuove opportunità e esperienze. Per i nostri due amici si sta concludendo un ciclo e se ne apre uno nuovo.
Jorge è stato riconosciuto come rifugiato e ha ricevuto la residenza permanente:
“Ora con il permesso di soggiorno stabile posso pensare ai miei progetti e iniziare una nuova vita, perché non credo che a breve termine le cose possano cambiare in Honduras: il paese è diventato una narcodittatura e l’opposizione è divisa. La mia intenzione è di trasferirmi in un’altra città, dove vive la mia ragazza. Continuerò ad occuparmi di letteratura e a dare il mio contributo perché cambi la situazione in America Centrale e migliorino le condizioni di vita dei migranti”.
Anche per María Fernanda, con la chiusura dell’ospedale temporaneo COVID, si apre un tempo nuovo:
“Il Messico mi piace, in passato ho avuto la possibilità di andare negli Stati Uniti, ma quel paese non mi ha mai attirato. Penso che Dio mi abbia portato qui per un proposito. Mi piacerebbe lavorare con i Medici senza Frontiere, con la Croce Rossa o in qualche altra organizzazione internazionale per aiutare gli altri. In questo periodo mi sono anche fratturata un braccio, pensavo di non farcela a lavorare, ma grazie ad altri medici che avevo conosciuto ho potuto ricevere tutte le cure. Ho pensato che per un migrante un problema di salute può diventare una questione molto grave se non ha dei contatti come li ho avuti io. Io sono stata assistita e gli altri?”.
Dietro queste due storie intravvediamo tanti altri giovani costretti a lasciare il proprio paese per poter continuare a vivere, sfuggire alla violenza ed essere fedeli ai propri ideali senza lasciarsi corrompere da sistemi iniqui. Il loro impegno è un segno di speranza e ci lascia con una domanda che ci fa sentire corresponsabili: quando potrà trovare pace e libertà l’America Centrale?

Luisa Deponti

 

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